Dentro il caseificio Sant’Angelo

Oriano Caretti ha pelle rosea, polsi robusti e stivali sempre sporchi. «La chimica ti dà tutto – spiega -, fosfati, azoto, potassio; ma niente nutre il terreno come questo letame. Tu senti la puzza e invece il letame, credimi, è una risorsa». Così dicendo si abbassa e afferra una manata di terriccio. Bruno e acre, che si sfarina. Non li vedi, ma lì dentro – assicura l’Oriano – i batteri si stanno dando un gran daffare: «Metabolizzano tutto, diserbanti compresi. Dove c’è il letame non c’è inquinamento». E pazienza se l’Europa ci ha raccontato per anni una storia del tutto diversa e i Caretti hanno comprato centinaia d’ettari per stare in regola con la direttiva nitrati.

Oriano alleva 300 vacche, metà in lattazione, e gestisce col fratello un caseificio da 15.000 forme. Sa tutto quel che c’è da sapere su questa terra di stalle e medicai, di latte e di formaggi, così come lo sapevano suo padre e suo nonno, che il letame lo spalavano a Sant’Angelo, quando il nastro trasportatore non c’era ancora e lo stallatico si portava via con la carriola: «Vedi com’è tutto pulito? Anche la paglia e il foraggio, che dev’essere fresco – racconta – perché se in un allevamento entra il clostridium botulinumsono guai seri». Diversamente dal Grana Padano, il latte destinato a produrre il Parmigiano Reggiano non può essere disinfettato: «il nostro è un prodotto di qualità, genuino come questa puzza, che vuol dire più lavoro e più costi».

Il dente duole, si capisce; il prezzo di questo formaggio a pasta dura è sceso di due euro e quello del latte non è mai stato così basso. Il prodotto spot viaggia intorno ai 35 centesimi al litro e i 3328 allevatori che, tra Bologna, Reggio Emilia, Modena, Parma e Mantova, lo conferiscono ai 363 caseifici del Consorzio del formaggio Parmigiano Reggiano (3,3 milioni di forme) ne incassano 15 in più; ma i costi imposti dal disciplinare di produzione sfiorano i 60 centesimi sicché i conti non tornano neanche se consideri contributi Pac e ricavi carne. «Come se non bastasse, poi, dalle frontiere entra di tutto e…» e a questo punto il Caretti ti spiega cosa sia la concorrenza sleale con un’espressione grassa come la terra di qui.

Questo tipo di zootecnia vive di programmazione e fidi bancari. Uno starnuto dei listini e finisci in bancarotta e «chiudere una stalla è una scelta irreversibile – precisa Caretti – perché la selezione di una mandria impegna generazioni di allevatori». Se, com’è avvenuto in questi ultimi anni, i listini perdono il 20% iniziano a saltare le teste. La Coldiretti ha chiesto quella del presidente del Consorzio, Giuseppe Alai, uomo forte di Confcooperative, accusandolo di aver sbagliato strategia e aver fatto affari attraverso una società magiara (piovono querele).

Alai paga il crollo dei prezzi – due euro secondo l’accusa, uno secondo il consorzio – e il buco milionario di una partecipata, la I4S, che avrebbe dovuto rilanciare l’export. Lui sottolinea che la domanda interna sta crescendo (+1,7%) e propone di modulare la produzione; una contromisura impopolare, dal momento che fa rientrare dalla finestra le contestatissime quote latte, che l’Ue abolirà dal primo aprile. Per la Coldiretti, la vera priorità è fermare l’invasione di Similgrana di bassa qualità, un giro d’affari da due miliardi, quanto l’export di Parmigiano e Grana Padano presi insieme.

Va detto che la crisi del re dei formaggi non è un fulmine a ciel sereno: per anni, al suo capezzale sono accorsi i ministri dell’agricoltura, pronti ad acquistare qualche migliaio di forme con i soldi pubblici per distribuirle agli indigenti. Un palliativo che non esorcizza più la paura di fare la fine del maiale. Letteralmente, come ti dicono a Langhirano, dove hai la sensazione del déjà vu: «Non vogliamo finire come i suinicoltori» taglia corto Luca Cotti. Con 7.000 quintali di latte, è uno dei consiglieri del consorzio del Parmigiano che chiedono l’azzeramento delle cariche. «Il bilancio I4S è in profondo rosso, siamo spariti dalla tv e gli italiani ormai conoscono solo il Parmareggio. Cosa aspetta Alai a trarre le conseguenze?» sbotta. I Cotti sono allevatori da sempre.

Passano le loro giornate a confrontare le performances dei tori: Golden Dreams ha ottimi arti e mammelle perfette, ma il latte di Mascalese è imbattibile… «Acquistiamo il seme e ogni anno la stalla cresce del 5%. La nostra selezione non deve mai fermarsi ma se il prezzo crolla siamo rovinati. Ora l’incubo è quello di fare la fine del prosciutto: arrivano camionate di cosce dall’estero e sono spariti gli allevamenti emiliani, ma la fine è iniziata proprio nello stesso modo, con l’agropirateria e un atteggiamento rinunciatario. Per questo vogliamo che il consorzio ci difenda e che faccia una vera promozione; ma per cambiare rotta servono persone nuove, i responsabili del dissesto non hanno l’autorevolezza per chiederci altri sacrifici». Concetti decisi, come la puzza di queste stalle che sovrasta tutto. Quella delle porcilaie, del resto, non si sente più.

fonte: www.avvenire.it